Nel 1987 Francesco Barasciutti aveva 17 anni. Un ragazzino che si trovava all'improvviso a gestire uno studio fotografico. Un anno, il 1987, all'insegna del dolore per la morte del padre e dell'iniziazione al mestiere. Quello strumento, quella macchina fotografica, ereditata e non sconosciuta, doveva diventare fonte di sostentamento, ma anche di appagamento e di comunicazione. Francesco si consacra al ritratto, una scelta radicale, esclusiva, che per una decina d'anni lo porta a rinchiudersi in uno studio-eremo, dove dedicarsi al rito della luce e della messa in posa. Davanti al suo obiettivo sfilano in tanti. Su uno sfondo grigio, i pittori, gli attori, gli scrittori, i musicisti, gli artisti nostrani e foresti. Volti, lineamenti, atteggiamenti, espressioni, sentimenti, gesti, pensieri: la smorfia sfottente di Tognazzi; Bortoluzzi e Pizzinato a muso duro; Renzulli severo, lontano; Gaber assorto in un lieve sorriso; Ritsue ed Anju, la compostezza dell'affetto; Heiby sorregge, accarezza il suo frutto ormai maturo. Una galleria che si arricchisce anno dopo anno. Nella rassicurante clausura dello studio Francesco cresce in una comunione di occhi, di sguardi, di sottili vibrazioni. Ogni ritratto ha una sua storia autentica, senza forzature e senza intromissioni. Con la sua tecnica, il suo rigore, la sua dolce severità, Francesco stabilisce un contatto e raccoglie quella luce, più o meno intensa, che ognuno si porta a presso: qualcuno la chiama aura. Poi un giorno nello studio comincia a filtrare qualche raggio di sole.Un'improvvisa brezza irrompe, portando voci e rumori: lì fuori c'è Venezia. Ed il monaco ritrattista sente il bisogno di esplorare qualcos'altro, di confrontarsi con l'esterno, con la sua città percorsa quotidianamente, ma così estranea, fuori dai suoi interessi fotografici. Non è un'abiura dello studio, è una prova, un esercizio fisico e mentale. In compagnia della sua Leica Francesco s'incammina attraverso calli, campi, fondamente, a coglierne la quotidianità, la gente e il lavoro, ma anche la magia e lo splendore. Venezia non è un soggetto facile, la modella è abusata, ma Francesco l'affronta con la sua finezza, la sua sensibilità, la sua prontezza, la sua serenità. Disponibile, curioso, pronto a cogliere gli attimi: un incontro, un gesto, un gioco, un riflesso, un movimento. Un bambino pare trascinare la sua ombra; un cristo della carne trasporta il suo fardello; i pontili sono postazioni privilegiate dove osservare la città che si muove; il vetro reinventa le prospettive, ribalta ed inganna. Attimi, basta saperli afferrare. Non c'è sempre il tempo per prendere la mira, il dito scatta, l'occhio si è trasferito lì e ha fatto centro. La scoperta dell'esterno modifica anche l'approccio di Francesco con il ritratto. Capita, sempre più spesso, che lo studio lo trasferisca nel luogo dell'artista. Il rigore della posa, lo sguardo che fissa l'obiettivo lascia spazio all'improvvisazione. L'inquadratura si allarga, entrano in scena oggetti e sfondi: Manina si nasconde il volto; Memo pensoso si fuma una sigaretta; un ironico Bortoluzzi torna in scena, questa volta è solo: Pizzinato se ne è andato. Sono passati 17 anni da quei 17 anni di perdita e di conquista, bastano queste 15 fotografie per rendersi conto di quello che con una macchina fotografica, con la sua agile poesia, il suo rigore e la sua umanità, Francesco ha saputo fare. Immagini di vita che si incidono negli occhi, ti entrano dentro, serie e spensierate, malinconiche ed allegre, forti e delicate, come Francesco. Emanuele Horodniceanu. " Novecento Boutique Hotel ", Venezia 28 maggio 2004. |
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