Un’ombra, un minuto fa
prof. Agostino De Rosa, Università Iuav di Venezia
G. Marchianò, La cognizione estetica fra Oriente e Occidente, Milano 1987.
Il mondo sensibile, così come appare ai nostri occhi, risuona alle nostre orecchie, si offre al nostro tatto, è dominato da immagini; ci muoviamo quotidianamente in un universo di effigi accettandone la veridicità, o credendo di distinguere dove cessi in esse la rappresentazione del reale e dove incominci l’illusione, pericolosamente affidandoci alla pura percezione sensoria. L’osservatore dell’evo contemporaneo, più che nel passato, lentamente ha deformato la propria soglia di discriminazione relativa alla natura delle immagini, sostenuto da una tecnologia e da una cultura che hanno progressivamente cancellato, per accumulo segnico, ogni distinzione di sorta fra realtà e icona, ma soprattutto hanno eliso la questione fondamentale relativa alla domanda di che cosa le immagini siano immagini, per dirla con Grazia Marchianò, ovvero di quale sia il loro contenuto archetipico. E’ un quesito questo che la modernità ha eluso concentrando l’attenzione sulla forma, sulla superficie su cui lo sguardo, ma in genere i sensi tutti, rimbalzano. Etimologicamente il termine immagine deriva dall’indoeuropeo yem, “tenere assieme”, “apparire”, rimandando inevitabilmente all’idea del “frutto doppio”, alla rappresentazione più o meno fedele di una realtà certo esterna al nostro dominio interiore, sospesa a metà strada fra idea e forma 1. Ma, allora, l’immagine visiva replica fedelmente l’oggetto osservato o ne è una parziale ed imperfetta copia, soggetta all’accumularsi di sensibilità ed inclinazioni fisiologico-culturali di chi ne è sopraffatto al punto di descriverla? La stessa idea di immagine nell’accezione geometrico-descrittiva riflette l’idea di una riproduzione manchevole e parziale dell’oggetto osservato, soprattutto per la scelta del centro di proiezione, ovvero dell’occhio geometrico che presiede ad ogni veduta: quanto distante dalla nostra percezione sensoria è la duplicazione delle superfici operata dalle proiezioni mongiane, che annullano la tridimensionalità e trasformano i corpi solidi in costellazioni di punti tutti egualmente visibili, anche se celati apparentemente all’occhio improprio 2 che tutto osserva come l’effigie pubblicitaria di un ottico nel Gatsby di F. S. Fitzgerald? E che dire delle immagini assonometriche ove il mantenimento del parallelismo sortisce in noi un effetto di regressione infantile, quando rappresentavamo, da bambini, le rette parallele in profondità come effettivamente parallele anche nella finzione del disegno? Tuttavia l’esperto disegnatore, oggi come nel passato, nel tentativo di riempire di credibilità percettiva i propri astratti modelli grafici - o eidomatici - della realtà, sa che il ricorso all’illuminazione del soggetto può sortire notevoli effetti di realismo; e l’unica via per fare apparire la luce, bianca, sul foglio di carta, per lo più bianco anch’esso, è di ricorrere alla descrizione delle ombre che la luce stessa proietta, suo effetto visibile ma anche segno della sua assenza 3. La stessa percezione sensoria della tridimensionalità degli oggetti riposa su un certo numero di devices (“...prospettiva, occultamento parziale di un oggetto da parte di un altro e disparità stereoscopica...”4) che informano l’immagine retinica; ma in particolare le parti in ombra degli oggetti costituiscono l’indizio “più primitivo” fra quelli disponibili per stabilire forma e posizione di ciò che ci circonda. La stessa evoluzione di alcuni aspetti somatici nelle specie animali, come ad esempio lo schiarimento delle parti ventrali, indicherebbe una naturale compensazione dell’ombra, che ivi si crea per illuminazione solare, a fini mimetici: “questa ‘ombreggiatura alla rovescia’ compensa gli effetti di luci e ombre dovuti all’illuminazione solare dall’alto, e presenta almeno due vantaggi: riduce il contrasto con lo sfondo e ‘appiattisce’ la forma percepita dell’animale”5. Le ombre, in particolare quelle proiettate su altre superfici, sono immagini per loro ontogenesi, repliche fedeli e al contempo astrazioni proiettive che declinano la natura della sorgente luminosa che le genera, la complessità formale dell’oggetto di cui sono la proiezione, ma anche pronte a celare porzioni rilevanti del suo significante e del suo significato sia immediato che metaforico. Questa ambiguità delle ombre è in parte ascrivibile appunto al loro grado di significazione, assai enigmatico ed instabile: come osserva Rudolph Arnheim 6, l’ombra può essere ritenuta contemporaneamente parte integrante o separata dell’oggetto di cui è la proiezione; del resto gli studi sulla percezione delle forme hanno stabilito, attraverso prove sperimentali, che l’ombra gioca un ruolo determinante in questo senso anzitutto se contestualizzata, cioè se inserita in un “processo globale implicante l’intero campo visivo o comunque gran parte di esso”7, a meno di incorrere in illusioni. Inoltre l’impressione stereometrica delle superfici sembra riposare sulla certezza che l’intera immagine sia illuminata dall’alto, certezza che “potrebbe essere dovuta al fatto che l’evoluzione del cervello umano ha avuto luogo in un sistema planetario in cui esiste un unico sole”8. L’ambiguità dell’ombra risiede anche nella nostra difficoltà a percepirla: da un lato, essa è per definizione legata all’interdizione della luce, cioè ad una condizione di non visibilità, e tuttavia noi diciamo spesso di vedere un’ombra quasi si trattasse di un corpo. Secondo Arden Reed, infatti, noi non percepiamo soltanto la differenza fra luce e tenebra, non vediamo soltanto le ombre, bensì le ‘leggiamo’: “cioè, le ombre inevitabilmente significano perché sono contemporaneamente e inseparabilmente fenomeni sensoriali e costrutti teorici”9. Le opere di Francesco Barasciutti qui presentate si collocano esattamente su questo ambiguo crinale semantico, da un lato rifiutando il loro essere solo fotografie, dall’altro sfuggendo all’inesorabilità prospettica connessa al mezzo tecnico impiegato dall’autore. Infatti esse ci appaiono come immagini inclassificabili tout court, ricorrendo a un linguaggio espressivo che le approssima più a certe esperienze pittoriche De Stijl che ad un set di nature morte, quali effettivamente sono. La scelta poi di riprendere questi origami di cartoncino colorato da una distanza assai ravvicinata, quasi azzera il loro scorcio prospettico, offrendoci immagini fortemente ‘parallele’, in cui la convergenza forzata verso l’orizzonte si attenua. Il risultato è perturbante, pur nella sua assoluta semplicità, e nel minimalismo delle scelte espressive. Oggetti osservati ‘sotto l’angolo della totalità’, in cui colori puri e soprattutto ombre proprie e portate giocano il loro ruolo iconografico di secondo grado: immagini nel cuore di altre immagini. Sospese tra ripetizione ed apparenza, le ombre talvolta annunciano realtà materiali non ancora incontrate fisicamente, attraverso una silhouette distorta ma pur sempre riconoscibile; quasi come “un’eco è per un suono, l’ombra permette di scorgere, salvo il fatto che il ritardo temporale dell’eco contrasta con la simultaneità dell’ombra. Come se l’eco potesse suonare insieme al suono, qui la rappresentazione appare insieme al corpo rappresentato”10; tal’altra, le ombre sintetizzano lo scarto fra la materialità, nella sua pretesa atemporalità, e le ciclicamente mutevoli posizioni della sorgente luminosa, la differenza tra ciò che è immoto e ciò che è in perpetuo movimento 11. Come osserva Arden Reed, “...poiché l’ombra è sempre adiacente a o confinante con, ma non esattamente ove ci si trova, essa delinea il luogo ove al presente o nel presente non si è. Metaforicamente allora l’ombra cade su ciascun lato del presente, sia esso passato o futuro, e significa l’adombramento o di ciò che deve ancora apparire o di ciò che è già al di fuori della visione”12. Legato all’ombra è anche il significato di protezione, come si evince dalla radice dell’inglese shadow, cioè dal sassone secaduam - letteralmente: ricoprire -; ritroviamo tale significato nell’accezione vedica di châyâ (“ombra”, ma anche “rifugio”) o in quella nipponica di Ei, così riassunta da Jun’ichir Tanizaki: “l’imposizione dei nostri tetti è simile all’apertura di un parasole: marca sul terreno un perimetro d’ombra, di cui ci riserviamo il dominio; là aggiusteremo, poi, la nostra casa”13. E così ci si sente di fronte alle immagini di Barasciutti: pronti a trasformare quei luoghi - d’ombra e colore - ritratti dall’autore in una dimora per la nostra immaginazione. 1 G. Marchianò, La cognizione estetica fra Oriente e Occidente, Guerini, Milano 1987, p. 168. 2 Improprio nel senso proiettivo, cioè assimilabile ad un punto infinitamente lontano. 3 Da un punto di vista fisico, l’ombra “si produce laddove si registra una deficienza locale e relativa della luce visibile. La luce è il flusso di unità massa-energia emesse da una sorgente radiante, il sole o una sorgente puntiforme. Le unità massa-energia, o fotoni, sono eccedenze energetiche, il prodotto eccedente di particelle più piccole combinate insieme per diventare particelle più grandi, ed alcuni di questi fotoni sono più energetici di altri. La luce visibile consiste soltanto di fotoni collocati nel mezzo di quello spettro energetico... L’ombra, allora, è in primo luogo una insufficienza locale e relativa nella quantità di luce che incontra una superficie, ed è obiettiva. E, in secondo luogo, è una variazione locale, relativa nella quantità di luce riflessa dalla superficie all’occhio”. Cfr. Baxandall, M., Shadows and Enlightenment, Yale University Press, New Haven e Londra 1995, pp.1-3 4 V. S. Ramachandran, Ombreggiatura e percezione delle forme, in “Le Scienze” n° 242, anno XXI, vol. XLI, Ottobre 1988, p. 72. 5 Ivi. 6 Cfr. R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano 1965, in particolare il paragrafo intitolato “Le ombre”(pp. 257-260). 7 Ivi. 8 Ivi. “Sembra, quindi, che il nostro sistema visivo estragga un oggetto tridimensionale da indizi fondati sull’ombreggiatura e che percepisca il movimento sulla base dell’immagine tridimensionale, piuttosto che grazie all’uso diretto dell’immagine ‘primitiva’ bidimensionale. Certe cellule nella corteccia visiva delle scimmie rispondono al movimento apparente di stimoli semplici... Potrebbe essere interessante vedere se queste cellule siano o meno in grado di rispondere a un movimento fondato su oggetti la cui forma venisse percepita sulla base dell’ombreggiatura”. Cfr. V. S. Ramachandran, op. cit., p. 78. 9 A. Reed, Signifying Shadows, in “VIA” n°11, Rizzoli International, Philadelphia 1991, p. 13. 10 Ibidem, p. 15. 11 Si vedano, ad esempio, le cinquanta tele realizzate, tra il febbraio e il marzo 1892, da Claude Monet, incentrate sulla registrazione pittorica delle variazioni di luce e di ombra sulla facciata della Cattedrale di Rouen (Francia). 12 A. Reed, op. cit., (il corsivo è mio, n.d.R.). In questo senso, l’ombra intesa come prefigurazione è riconducibile al suo etimo latino, ad umbrare. 13 J. Tanizaki, Libro d’ombra, Bompiani, Milano 1990, p. 49. |
|||