Oggi sono quasi inodori ma forse ci si ricorderà dei primi computer i quali, per funzionare, abbisognavano di grossi e pensanti trasformatori, proprio come la gran parte degli elettrodomestici, tanto da “puzzare” da frigorifero. Guardando Venezia dall’alto, con il suo sistema di canali attraversati da ponti può venire in mente l’immagine del progresso. Li avete mai visti, infatti, i circuiti integrati che, segnando la fine prima delle valvole e poi dei transistor, diventando sempre più complicati e miniaturizzati, hanno aperto la strada ai processori e quindi ai computer, a loro volta sempre più piccoli, leggeri, miniaturizzati e potenti? Ma se li avete visti vi sarete anche accorti che quei rivoli sempre più piccoli e complessi di rame punteggiati da incroci e connessioni, rispondono a logiche ineludibili di ordine e razionalità. Mentre il tessuto connettivo veneziano, fatto di rii d’acqua e connessioni di pietre e masegni detti ponti, è del tutto disordinato e occasionale. Entrambi gli schemi sono nati per essere percorsi e quindi per portare conoscenza. Ma mentre il passaggio delle microcorrenti nei circuiti informatici serve a ottimizzare la logica che l’uomo ha inserito nel computer per gestirlo in modo sempre più articolato e veloce, il percorrere rii e fondamenta, aiutati dalla necessità di scalare, salendo e discendendo, i gradini dei ponti, quasi pretende di perdersi, di emozionarsi, di entrare in una dimensione sognata di fantasia, e di immaginazione. Il ponte-connessione, allora, oltre a spezzare la continuità del passo rendendo il deambulare più facile, ribadisce la variabilità dell’animo umano. E la riprova è che a Venezia, ogni ponte ha una sua ragion d’essere, non ce n’è uno uguale all’altro, ognuno è stato pensato e costruito esclusivamente per quel luogo, per negare l’omologazione, per esser di servizio, ovviamente, ma, nel contempo per esaltare l’individualismo di una vita fatta a misura d’uomo e per ogni singolo uomo.
Carlo Montanaro |
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