Non mi ero mai accorto che, fissati nei portoni di Venezia esistevano moltissimi elementi decorativi che potevano risultare determinanti nella costruzione di storie. Maniglie, pomoli, anelli, batacchi e chi più ne ha più ne metta, di foggia assai dissimile, se posti in sequenza, potrebbero andare a caratterizzarsi come protagonisti di avventure senza tempo. Facciamo degli esempi basandoci sul calendario 2004 della Venis che qui si presenta? - La damina-aprile, morosa del gentiluomo-luglio, vede nel cielo un'aquila-marzo che per lei rappresenta un segno negativo. Non a caso quella notte ha sognato che il suo cane-giugno era stato attaccato da un serpente che tentava di strangolarlo sotto gli occhi di una signorina-settembre ignuda che si offriva per provocare il moroso che invece, in perfetta buona fede, stava mercanteggiando dei reperti aztechi-agosto d'antiquariato che, se bel collocati, potevano creare le basi per permettere loro finalmente di sposarsi... Ma anche: - un lui-gennaio e una lei-febbraio, industriali africani del pesce-colophon-presentazione (questa è un po' grossa, ma insomma...) vengono a Venezia per formalizzare un contratto con il mercante-novembre che ha un figlio-ottobre un po' timido che va a ripetizione da un geniale ma eccentrico professore-maggio baffuto e scarmigliato... E va bene, in realtà, lo confesso, sto un po', come si dice nell'oggi, cazzeggiando, arrampicandomi sugli specchi perché il grafico Fabrizio Olivetti non ha scelto, di concerto con Francesco Barasciutti, i manufatti da fotografare in funzione di una storia da raccontare. Avrebbe potuto essere un'idea, forse in realtà. Perché queste piccole sculture attaccate sulle porte, soffrono da anni di solitudine e potrebbero godere nel trovarsi coinvolti nel fascino di una narrazione che mettesse in rilievo non solo la loro qualità espressiva, ma anche la loro età, il loro pregresso appena appena intuibile dal consumo provocato sulle loro effigi dalla manipolazione di quanti li hanno, nel tempo, utilizzati per aprire o chiudere una casa. Ma probabilmente sarebbe stato difficile decodificare la loro reale funzione e la loro qualità narrativa, dal momento che altrettanti personaggi-maniglia, se non quantità notevolmente superiori di oggetti simili non ci sono più, dispersi da restauri frettolosi, rivenduti e rinchiusi, magari, in polverose bacheche espositive, oppure rubati e finiti chissà dove, in collezioni particolari celate allo sguardo dei più che potrebbero riconoscerli come oggetto di rapina. E quindi il progetto complessivo che, calle dopo calle, campiello dopo campiello, portone dopo portone, battente dopo battente era andato costruendosi negli anni, con la perdita di parte degli elementi, risulta oggi inintellegibile. Ed è un peccato perché sappiamo quanto importanti siano i piccoli oggetti di uso quotidiano, abitudinario, per ricostruire un clima, un'atmosfera, un modo di vita. Molto più delle opere alte, quelle più chiaramente artistiche che però risultano spesso elittarie e, se vogliamo, sganciate da una normalità di vita. Così, perso questo percorso vario e articolato con una specie di fil-rouge che univa case e palazzi, forse si è anche persa l'attitudine ad osservare dove si pongono le mani, andando in visita dai proprietari delle abitazioni superstiti che ancora utilizzano le piccolo sculture come maniglie. Quasi non si accorge più, il visitatore, che, aprendo, palpeggia e consuma uomini, donne e creature più o meno realistiche o più o meno evocanti sogni e climi di sapore ancestrali o esoterici. Non si accorge, il visitatore, di impossessarsi per brevi istanti, di reali momenti di storia. Ma se si vuole, questa osservazione è abbastanza banale in quanto una cosa è guardare e una vedere. Una cosa è leggere con gli occhi uno spazio più o meno articolato e un'altra è capire la visione che l'occhio invia al cervello, decodificare i segni che ci troviamo di fronte. E se questa è, più o meno, una legge generale, figuriamoci come funziona a Venezia, dove gli anni e i loro prodotti artistici o semplicemente artigianali, si sono accumulati e sovrapposti nel tempo; e dove ogni giorno si rischia di scoprire qualcosa di nuovo ripassando in un luogo che si è frequentato quotidianamente da una vita. Va da se che questa è l'operazione tentata da Olivetti e Barasciutti. Non guardare ma vedere. E in più esasperare la visione fino a decontestualizzare gli oggetti come se fossero dotati di vita propria, calmierandone la scala e rendendoli simili nelle proporzioni. Esaltandone la materia sia nel bruno della fusione artigianal-artistica tridimensionale che nello sfondo ancora bruno e venato che identifica la composizione del supporto: il legno. Un bruno su bruno di diverse intensità, esaltato da un pignolo e preciso studio della luce che deve aiutare ad interpretare, a definire, a chiarire. Per imbrogliare definitivamente. Perché al primo impatto, queste fotografie non riportano la reale effige delle statuette. Se uno le ricercasse forse, quasi, non le riconoscerebbe nel luogo in cui sono collocate per il loro uso primario. Ed ecco dove subentra la sensibilità, l'abilità, la qualità del fotografo. Nel leggere, reinventandola, la realtà. Perfino trasfigurandola con l'uso dell'obiettivo giusto, del giusto taglio di luce e quindi del giusto momento della giornata in cui apprestarsi allo scatto; e poi del giusto sviluppo e, infine, nell'oggi, della giusta scansione al computer che, oltre alle correzioni cromatiche tese a rendere omogenea la qualità espressiva delle immagini, arriva a gestire in proprio perfino operazioni che un tempo erano proprie delle tipografie come la concezione e il controllo delle matrici di stampa. Questo calendario 2004 per Francesco Barasciutti rappresenta anche questo: l'aver vinto una sfida ulteriore avendo prodotto in proprio le selezioni cromatiche che sono servite alla stampa. Dimenticando, allora, quell'idea iniziale che avrebbe dovuto permetterci di costruire una storia e che a me è servita comunque per intrattenervi, spero in modo gradevole, diciamo allora che questo calendario rappresenta quasi una scommessa per il fotografo Barasciutti. In quanto coniuga le tre anime che coesistono in lui e che, alternativamente, guidano il suo dito che preme il bottone di scatto della sua fotocamera. L'anima del ritrattista che lo ha reso famoso nel mondo con l'attribuzione del premio Kodak: e sfido chiunque a negare che le immagini non siano ritratti dei rispettivi soggetti da sempre appesi alle porte; perché ritratto significa interpretazione, significa composizione luministica, significa cercare di entrare nell'anima di quanto si riproduce e che, occasionalmente, può anche essere un oggetto. Come accade a Barasciutti quando risponde alla seconda anima, quella dello still-life anche di sapore commerciale. Con la realizzazione di cataloghi di oggettistica che spesso confina con quell'artigianato di cui stiamo qui disquisendo e che è imparentato con il mondo dell'arte. Ma quelle sono operazioni che, per quanto gestite intelligentemente con mezzi minimali (pochissime le apparecchiature illuminanti, molti riflessi collocati strategicamente), vanno costruite in studio. Mentre la terza anima di Francesco, equamente distribuita con le altre due, riguarda il classico "cogliere l'attimo fuggente", il non facile "congelare l'istante". Con le foto tra il contemplativo e il reportage che normalmente, fino a qualche anno fa, rappresentavano una sorta di hobby di lusso del fotografo che vi si applicava nei tempi morti del suo lavoro già stabilizzato e remunerativo. Ma che poi hanno comportato la possibilità di essere utilizzate per finalità analoghe a quella che qui stiamo celebrando e che, per quanto sottese da elementi di finzione, hanno saputo mantenere la freschezza e l'immediatezza tipiche dello scatto estemporaneo. Ma la lezione di base del reportage è il controllo della luce. Ed ecco allora che, come si diceva, in quelle che sembrano semplicemente delle immagini documentative di elementi decorativi, noi possiamo invece ritrovare una grande professionalità che lascia ancora del margini se non proprio all'improvvisazione almeno ad una sorta di incantamento nei confronti del risultato del lavoro. Rimettendo in gioco quel fanciullino che, se rimane attivo in noi, ha la responsabilità di gestire le fasi più profonde ed inconsce della nostra creatività. Carlo Montanaro Venezia 14 dicembre 2004 |
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